Le preferenze degli italiani rispetto alle riforme del mercato del lavoro -en

Le preferenze degli italiani rispetto alle riforme del mercato del lavoro

15 maggio 2002

I risultati della Terza Indagine FRDB/Demoskopea sulle preferenze delgi italiani rispetto alle riforme del mercato del lavoro

Gli italiani hanno paura della flessibilità: preferiscono un mercato del lavoro in cui “è molto difficile trovare un lavoro, ma una volta trovato un impiego, è molto difficile perderlo” a “un mercato del lavoro in cui è abbastanza facile trovare un impiego, ma è altrettanto facile perderlo”. Sono, a netta maggioranza, contrari anche quando gli interventi volti a “rendere più facili i licenziamenti” sono circoscritti ai nuovi assunti e ai lavoratori temporanei il cui contratto venga convertito in contratto permanente, così come contemplato dalle proposte del Governo. Tuttavia accettano maggiore flessibilità quando accompagnata da misure di sostegno al reddito dei disoccupati e aiuto nella ricerca di un impiego alternativo. Le preferenze degli individui variano in base all´età, al livello di istruzione e alla posizione sul mercato del lavoro. I giovani sono più favorevoli alla flessibilità degli anziani, così come coloro che hanno titoli di studio secondari o terziari rispetto a chi ha al massimo completato la scuola dell´obbligo. Tra chi lavora, solo imprenditori, dirigenti e liberi professionisti sono a maggioranza favorevoli a ricercare più flessibilità anche quando questa non è accompagnata da maggiori tutele per chi perde il lavoro. Infine, i disoccupati e, soprattutto, le persone in cerca di prima occupazione sono più inclini ad accettare maggiore flessibilità rispetto a chi è occupato. Questi, in sintesi, i principali risultati di un´indagine condotta da Demoskopea per conto della Fondazione Ing. Rodolfo Debenedetti su di un campione rappresentativo di famiglie italiane (1000 individui di età compresa fra i 14 e gli 80 anni). A differenza di altre indagini condotte in questi mesi, le interviste si sono svolte a casa degli intervistati, anzichè per via telefonica, e hanno posto gli individui di fronte ai pro e contro delle diverse scelte. Più flessibilità, ad esempio, viene proposta sia in entrata che in uscita. Nè potrebbe essere altrimenti, a dispetto di quanto spesso detto in campagna elettorale e in questi mesi. Il datore di lavoro, per assumere più facilmente, deve essere convinto che, se gli affari dovessero volgere al peggio, potrà sempre ridurre il numero di lavoratori alle proprie dipendenze. Si parla esplicitamente dilicenziamenti anzichè ricorrere al termine ambiguo di “flessibilità”. Si è anche cercato di offrire all´intervistato informazioni sulle condizioni del mercato del lavoro italiano rispetto a quello di altri paesi, spiegando loro che “oggi in Italia è più difficile licenziare un dipendente che in altri paesi europei” e che “questo rende più difficile trovare un lavoro per i più giovani” mentre “una percentuale relativamente bassa di disoccupati riceve un sussidio di disoccupazione ed è aiutata nella ricerca di un altro impiego”. Dati ben noti ai cultori della materia, ma non a quegli italiani che hanno in questi mesi sentito solo parlare vagamente ed ossessivamente di articolo 18. Che, non a caso, non è stato mai menzionato nell´intervista. Come non viene mai chiamato in causa il governo, onde non inficiare le risposte con a priori di natura ideologica. Quali le indicazioni che si possono trarre da questo sondaggio per gli scenari del dopo-sciopero generale? Tre le più importanti. Primo, è possibile riformare il nostro mercato del lavoro, avvicinandolo a quello di altri paesi europei (come i paesi nordici e quelli anglosassoni) che hanno saputo nel corso degli anni ´90 conoscere più forte crescita economica e occupazionale del nostro. Ma per farlo non si può procedere in una sola direzione. Se si vuole garantire maggiore libertà alle imprese nell´assumere e nel licenziare, bisogna ampliare il grado di copertura delle assicurazioni contro la disoccupazione. Grave, dunque, è stato l´errore del governo nel porre la questione “articolo 18” senza prevedere una vera riforma (il che significa anche stanziamenti adeguati) degli ammortizzatori sociali. Se altre erano le priorità sul piano della finanza pubblica, meglio sarebbe stato non aprire del tutto il confronto (poi scontro) su questi temi. Alla luce dei numeri del sondaggio, non c´è neanche da stupirsi che il fronte del no sia stato così ampio e compatto. Non stupisce nemmeno il comportamento del sindacato: quando posto di fronte a riforme che vanno solo nella direzione di ridurre le tutele, non può che dire dei no. Se oggi, invece, si vorrà riaprire il confronto mettendo sul tavolo proposte e risorse per nuovi ammortizzatori sociali, il sindacato dovrebbe pensarci due volte prima di rifiutare di sedersi al tavolo del negoziato. Contrapponendosi a questa riforma, questa la seconda lezione, rischierebbe di avere contro una maggioranza di giovani lavoratori e i disoccupati. La terza lezione è che circoscrivere con misure oltremodo complesse la platea dei lavoratori interessati agli interventi non serve ad allargare il fronte di chi sostiene le riforme. Al Sud non c´è più sostegno che al Nord per la flessibilità, semmai il contrario. E decidere, come all´ultimo Congresso di AN, che potranno accedere ai nuovi contratti non coperti dall´art.18 solo coloro che, alla data di approvazione della legge, avranno già un contratto a tempo determinato, significa solo sancire che la riforma non può aumentare l´occupazione perchè coinvolge solo chi un lavoro ce l´ha già. Rende, inoltre, ancora più esoterica una riforma mal congegnata fin dall´inizio. Serve, invece, informare i cittadini e proporre di scambiare una protezione per pochi con tutele per tutti.

Tito Boeri


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